[ tratto dal volume IL MIO PAESE di Giovanni Bucci ]
La pineta
C’era una volta una pineta sul mare; non quella di Ravenna, non quella di Viareggio... ma una pineta piccina piccina, che divideva le ultime case di un paesetto - senza storia - dalla sua spiaggia, piena di ciottoli e di buche. I ciottoli li forniva al mare, nell’inverno un fosso ch’era di là dalla pineta e aveva, dicono, piene spaventose, ma nell’estate serbava appena un filo d’acqua, dove le lavandaie andavano a lavare i loro panni e poi li stendevano sul greto, sotto il sole cocente, che li faceva candidi in un’ora.
In quel mare sassoso la mattina facevano il bagno i villeggianti, pochi e discreti, e a mezzogiorno tornavano a casa in gruppo, trascinandosi dietro i bambini, i costumi bagnati e la tenda del capanno. Sul mare restavano in fila le armature di legno, vuote, con quei tetti a punta contro il cielo, che sembravano le gabbie di un serraglio, da cui le belve fossero scappate, lasciando aperti tutti gli sportelli.
Restava a parlare col mare la pineta. Radi i pini e di diversa età; il «garbino» li aveva storti tutti verso il monte, per quanto dalla parte del mare chi li aveva piantati - un giardiniere a riposo - ci avesse messo, a difenderli, una bella fila di oleandri e un argine di sabbia, con in cima una siepe di tamerici, che in pochi anni era cresciuta e faceva bosco.
Sotto i pini cresceva la gramigna e altra erbetta bassa, profumata; e su quell’erba le donne delle case dirimpetto mettevano le stie con le galline e i monelli venivano a giocare all’ombra, e poi salivan sulle piante e si facevano sberleffi e burle, aspettando lo spettacolo solenne del venerdì, quando arrivava Pasquale, trascinando per la cavezza il vitellino grasso, e dietro il vecchio Liborio, che tirava il carrettino con su le ceste vuote, le coltelle e un rotolo di corda.
Scorreva stridendo il catenaccio della casetta rossa, nascosta in fondo alla pineta; il vitellino, che sentiva l’odor della morte, si impuntava, e tutti i ragazzi a spingerlo e poi dentro, mentre Pasquale lo legava e gli buttava un cencio sulle corna... Ahimè! la porta restava aperta e lo spettacolo atroce era per tutti, per chi voleva vedere e anche per chi non voleva. I monelli non perdevano una mossa; e quando la bestia era caduta, e dal collo squarciato il sangue rosso scorreva come un fiume sul pavimento in pendio, si disputavano l’onore di gonfiare la pelle alla bestia con la pompa e di aiutare Liborio, quando portava le entraglie, ancora palpitanti, a sciacquare nel mare... Istintiva crudeltà degli innocenti!
In quella pineta, dopo pranzo, vestito del solo accappatoio, con un libro sotto braccio, andavo a far la siesta. Poggiavo la schiena contro un pino, allungavo le gambe sull’erba - tiepida, pungente, - aprivo il libro e un po’ leggevo, un poco sonnecchiavo, un po’ mi guardavo attorno in dolce inerzia.
Veniva ogni tanto a darmi un’occhiatina una lucertola curiosa, e scompariva tra l’erba; la formica, in viaggio pel suo buco, qualche volta sbagliava strada e mi saliva sopra un piede; io svegliato da quel pizzicorino, le allungavo un buffetto piano piano: «Il mondo è largo, madamigella formica, e noi possiamo, diceva Tobia alla mosca, starci tutti, senza romperci le tasche!».
Passavan silenziose pel sentiero le donne che andavano a lavare: stinchi nudi, sottanone a pieghe fitte e la testa mezzo sepolta sotto il corbello dei panni. Dietro le tamerici il mare frusciava... Chi più felice di me?
Non mi scotevo, finchè non passava il treno, rombando e fischiando, sopra la sua scarpata: eran le quattro, l’ora di svegliare i dormienti, di vestirsi e di girar pel paese aspettando la posta. Col postino, col caffettiere, col barbiere le solite chiacchiere innocenti... La guerra? male scordato! La politica? male lontano!
Che poteva importare di politica e di guerra a quei trecento contadini arricchiti, a quei quattro bottegai alla buona, che avevan tutti la loro casetta al sole, fatta di bei mattoni, con la cucina piena di rami, e avanti all’uscio la distesa di conserva di pomodoro, che pian piano, di rossa si faceva bruna e densa, pronta a condire i buoni maccheroni dell’inverno?
Gente sana che mangiava il suo pane e metteva al mondo dozzine di marmocchi sodi, tranquilli, rubicondi. Nulla io avevo da insegnare a quella gente, molto da imparare e imparavo: semplicità, serenità, salute.
Ogni meriggio la pineta mi vedeva con la pelle più bruna e il cuore più tranquillo; il libro che mi ero portato molto spesso finiva per rimaner chiuso sull’erba, mentre io sognavo ad occhi aperti; e quando mi alzavo di lì per rientrare in casa - avevo presa, tutta per me, una casetta sul mare con pergola e giardino - coglievo, per metterlo in mezzo al tavolino da pranzo, un bel mazzo di oleandri bianchi e rosa, che empivano la casa del loro profumo sottile di mandorle amare.
L’anno appresso trovai il paese invaso da una turba di gente chiassona: i romani di Roma e dei Castelli avevano scoperto che lì c’era il pane buono, il pesce fresco, il vino e la frutta a buon mercato e si precipitavano a legioni.
Dovetti cercarmi casa di là dalla ferrovia e il mare lo vedevo a spicchi, di lontano. Quando andavo alla pineta, trovavo che molti l'avevano occupata prima di me: sull’erba, tutta pestata e sparsa di fogliacci, chi improvvisava una partita a carte e chi faceva all’amore. Non sempre trovavo libero un cantuccio, e quando riuscivo a poggiar la schiena sul mio pino, per leggere, qualcuno veniva a spiare il titolo del libro: forse sperava che io leggessi uno di quei romanzacci corrosivi che facevano allora da eccitante all’appetito dei pescicani.
Anche il paese ne era turbato: nasceva in molti la voglia dei subiti guadagni; i prezzi delle case e della roba salivano a livelli prodigiosi e i poveri facevano la faccia scura. Quando alla sera i manovali, tornando stanchi dal lavoro, incontravano quelle file di giovanotti e di ragazze vestiti di chiaro, che andavano a braccetto, cantando a squarciagola una canzone sguaiata, li accompagnavano con una occhiata torbida. E guardavano male anche me, come se anch’io fossi di quella razza.
Il terz'anno fu molto peggio; il paesino diventò la spiaggia di moda; ricchi troppo recenti e ricchi antichi si misero d’accordo per portare in campagna i più stupidi vezzi cittadini.
Riaprirono una sala, che negli anni della guerra era stata il rifugio dei profughi, e con due festoni di mortella e due bandiere ne fecero il circolo notturno, dove fino alle due un pianoforte scordato ripeteva il pestaticcio dello «shimmy» e del «fox-trot». Sulla spiaggia piantarono le reti del tennis, e tutte le mattine, in costume da bagno, polpe in mostra, i giovanotti e le ragazze prosperose impararono a fingere interesse per una palla che va e viene, quando invece badavano a tutt'altra giostra.
Nel caffè di piazza grande, a tutte l’ore, una valanga di golfs accecanti, di sottanine a pieghe, di scialli con la frangia, e chiacchiere e risate squillanti...
E la pineta? povera pineta, fu inondata anche lei di civiltà! Sul viale a mare i commendatori in pensione giocavano alle bocce; sul viale a monte i nepotini impuberi, maschi e femmine assortiti, giocavano a cerchietti, e sotto i pini le mamme e le nonne, distribuite in cerchio le seggioline pieghevoli, ricamavano i tovaglioli da thè, spettegolando.
Io la vidi di rado la pineta; non più in accappattoio e col mio libro, ma camminando su e giù tutto aggrondato, finché mi assaliva uno dei soliti pezzi grossi giulebbosi: — Oh giusto lei! non la si vede mai... ma cosa fa?
E non poter rispondere: «Aspetto che ve ne andiate, seccatori !».
Il quarto fu peggio ancora. Paese ingrandito: ville su ville, tirate su alla svelta, senza fondamenta, con certi ghirigori alle finestre e certe terrazze di cemento armato e certi torricini, che più che invidia faceva-no rabbia. Perciò non mi dispiacque di dover cercar casa un po’ lontano.
Quando tornai a vedere la pineta, trovai che ci avevano aperto due ferite. Proprio nel mezzo un falegname ci aveva piantato un chiosco di legno lustro coperto di eternit, coi cartelloni della birra italo-tedesca a lettere mostruose; sull’erba erano sparsi sedie e tavolini, e chi andava a bere pestava l’erba, scortecciava i pini, schiomava gli oleandri, e l’oste-falegname buttava l’acqua sporca dappertutto.
In fondo, proprio nel mio cantone, uno del municipio aveva avuto la luminosa idea di una fontana, e l’aveva fatta a fiore crociforme, col suo parapetto di cemento,la ringhiera e il poppatoio di tufo nel mezzo, che sputava nelle ore prescritte uno schizzo di acqua calda... e perché si andasse a veder la meraviglia, aveva aperto tra i pini due vialetti in croce, e ci aveva messo da una parte e dall’altra due sedili.
Quando vidi che i ragazzi buttavano i sassi dentro la fontana e sbrecciavano i sedili, dissi tra i denti: «Forza, ragazzi».
L’anno scorso non volevo nemmeno andarci alla pineta. Già di lontano si sentiva il brusio dei vandali invasori e si vedevano i pali di cemento, piantati tondo tondo a sostenere le lampade ad arco...
Ma non mi sarei mai aspettato quel che vidi. Tutto lo spazio ombroso era segato di rivellini di cemento, a due per due, che solcavano in lungo e in largo la pineta: viali e aiuole! Ma quei viali erano una striscia di ciottoli pungenti, e le aiuole spicchi di terra inaridita, senza un filo d’erba... deserto, deserto sabbioso e deserto roccioso, come in Libia; ma il deserto l’avevano creato nell’oasi gli ostrogoti! e in quel deserto, attorno alla fontanina e al chiosco, la solita tribù pontificava...
Scappai e corsi a fare il bagno mezzo chilometro lontano, dove di quella gente non mi arrivava nemmeno l’odore; e un giorno che fui per affogare, una cosa solo mi rincrebbe, appena riaprii gli occhi: che mi vidi disteso sopra un’asse, in mezzo alla sala dei balli notturni, circondato da tutta la tribù dei pellirosse, che mi copriva di aiuti e di compianti... Giù le mani!
Ma il cielo è giusto: quest'anno è venuto il castigo. Ho trovato il paese più che mai ingrandito: case su case molte finite e molte da finire, ma quasi tutte vuote. La pineta aggiustata, coi sedili, il chiosco riverniciato, i bei lampioni sui viali netti di erba, ma... deserta.
In paese avevano messo a nuovo il gran caffè, aperta una barbieria di lusso, empite le botteghe di reticelle, di scuffie, di palette, di cartoline illustrate pei bagnanti e... non è venuto nessuno. Come mai?
Ho chiesto ragione del mistero al commendator Ripani, che gli anni scorsi era sempre alla testa delle bande più rumorose, e che quest'anno misura tutto solo i dieci metri di portico davanti alla posta: - Eh, cosa vuole! - mi ha risposto - il cavaliere sta poco bene di salute, il colonnello ha cambiato casa, l’avvocato ha la moglie in istato interessante ... e poi adesso c’è il treno per Ostia e in mezz'oretta i romani vanno a fare il bagno in casa loro...
Me lo diceva in tono sconsolato, accompagnando con gli occhi foranti la figlia del barbiere, che traversava la piazza reggendo sulla testa il brocco pieno d’acqua con le sue belle braccia muscolose...
- Ho capito - pensavo - la volpe perde il pelo...
Così me lo godo tutto per me il mio paesino; e anche se la casa è rintanata in un vicolo nascosto, dove il mare non lo vedo nemmeno dall’abbaino, non me la prendo, perché posso andarmelo a godere, mattina e sera, in tutta pace, senza guaiti di pianoforte e senza strilli in inglese. E il vecchio brontolone, che, dopo quella tal burrasca, ha rifatte le paci con me, mi dice tante cose in un orecchio!
La pineta... quella si è rovinata per sempre: mi ricorda certe donne infelici, che in un’ora, per un miraggio brillante hanno gettato il fiore più bello dell’anima, e restan sole, con una piega di disgusto sulla fronte.
Pure, se un giorno di tempesta il mare arrivasse un po’ più su e seppellisse sotto un’ondata viali e sedili, ciottoli e cartacce! I pini in alto son sempre quelli e parlano al mare come allora; quando la brezza li incurva ed essi stormiscono leggeri, mi par che dicano al vecchio mare: Vieni!